Nuova tappa evangelizzatrice
caratterizzata dalla gioia
“La gioia del Vangelo riempie il
cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si
lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto
interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In
questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a
una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il
cammino della Chiesa nei prossimi anni” (1). Così inizia l’Esortazione apostolica
“Evangelii Gaudium” di Papa Francesco. Si tratta di un accorato appello a tutti
i battezzati perché con nuovo fervore e dinamismo portino agli altri l’amore di
Gesù, vincendo “il grande rischio del mondo attuale”: quello di cadere in “una
tristezza individualista” (2). “Anche i credenti corrono questo rischio” (2),
perché “ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza
Pasqua” (6): un evangelizzatore non dovrebbe avere “una faccia da funerale”
(10). E' necessario passare "da una pastorale di semplice conservazione a
una pastorale decisamente missionaria" (15).
Riforma delle strutture ecclesiali
Il Papa invita a “recuperare la
freschezza originale del Vangelo”, trovando “nuove strade” e “metodi creativi”
(11). L’appello rivolto a tutti i cristiani è quello di “uscire dalla propria
comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno
bisogno della luce del Vangelo”: “tutti siamo chiamati a questa nuova ‘uscita’
missionaria” (20). Si tratta “di una conversione pastorale e missionaria, che
non può lasciare le cose come stanno” e che spinge a porsi in uno “stato permanente
di missione” (25). E’ necessaria una “riforma delle strutture” ecclesiali
perché “diventino tutte più missionarie” (27). Partendo dalle parrocchie, il
Papa nota che l’appello al loro rinnovamento “non ha ancora dato sufficienti
frutti perché siano ancora più vicine alla gente” (28). Le altre realtà
ecclesiali “sono una ricchezza della Chiesa”, ma devono integrarsi “con piacere
nella pastorale organica della Chiesa particolare” (29).
Conversione del papato
Quindi aggiunge: “Dal momento che
sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una
conversione del papato” perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo
intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. Giovanni Paolo
II “chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che,
pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra
ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso”. “Il Concilio
Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali,
le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo,
acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo
auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato
sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come
soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale.
Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e
la sua dinamica missionaria” (32).
Concentrarsi sull’essenziale
Riguardo all’annuncio, afferma che è
necessario concentrarsi sull’essenziale, evitando una pastorale
“ossessionata dalla trasmissione
disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a
forza di insistere” (35): “in questo
nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore
salvifico di Dio manifestato in Gesù
Cristo morto e risorto” (36). Succede che si parli “più della legge che della
grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di
Dio” (38). “A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza
sfumature” dice: “in seno alla Chiesa ... le diverse linee di pensiero
filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel
rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare
meglio il ricchissimo tesoro della Parola” (40). Circa il rinnovamento, afferma
che occorre riconoscere consuetudini della Chiesa “non direttamente legate al
nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia”: “non abbiamo
paura di rivederle”. (43).
Una Chiesa con le porte aperte
“La Chiesa – scrive il Papa – è
chiamata ad essere sempre la casa aperta del padre. Uno dei segni concreti di
questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte”. “Nemmeno le
porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. Così
“l’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è
un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli.
Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a
considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori
della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa
paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” (47). Quindi
ribadisce quanto diceva a Buenos Aires: “preferisco una Chiesa accidentata,
ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa
malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non
voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un
groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci
e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli” vivono senza
l’amicizia di Gesù (49).
Sistema economico attuale ingiusto
alla radice
Parlando di alcune sfide del mondo
attuale, denuncia l’attuale sistema economico: “è ingiusto alla radice” (59).
“Questa economia uccide”, fa prevalere la “legge del più forte, dove il potente
mangia il più debole”. L’attuale cultura dello “scarto” ha creato “qualcosa di
nuovo”: “gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’” (53). C’è la
“nuova tirannia invisibile, a volte virtuale”, di un “mercato divinizzato” dove
regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale
egoista” (56). Il documento affronta poi gli “attacchi alla libertà religiosa”
e le “nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni
Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti
luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista” (61).
Individualismo postmoderno snatura
vincoli familiari
La famiglia, “cellula fondamentale
della società” – prosegue il Papa – “attraversa una crisi culturale
profonda”. Ribadendo, quindi, “il
contributo indispensabile del matrimonio alla società” (66), il Papa sottolinea
che “l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita
... che snatura i vincoli familiari”(67).
Tentazioni degli operatori pastorali
Il testo affronta poi le “tentazioni
degli operatori pastorali”. Il Papa, afferma, “come dovere di giustizia, che
l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e la nostra
vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non
devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore” ((76). Ma “si
possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino,
un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del
fervore” (78); in altri si nota “una sorta di complesso di inferiorità, che li
conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana” (79). “La
più grande minaccia” è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della
Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in
realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità” . Si sviluppa
“la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da
museo” (83). Tuttavia, il Papa invita con forza a non lasciarsi prendere da un
“pessimismo sterile” (84). Nei deserti della società sono molti i segni della
“sete di Dio”: c’è dunque bisogno di persone di speranza, “persone-anfore per
dare da bere agli altri” (86). “Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha
invitato alla
rivoluzione della tenerezza” (88)
Dio ci liberi da una Chiesa mondana
Denuncia quindi “la mondanità
spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore
alla Chiesa”: consiste “nel cercare, al posto della gloria del Signore, la
gloria umana ed il benessere personale” (93). Questa mondanità si esprime in
due modi: “il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo”
e “il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che ... fanno
affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché
... sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del
passato. E’ una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un
elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano
e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si
consumano le energie nel controllare” (94). In altri “si nota una cura
ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza
che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei
bisogni concreti della storia”. In altri ancora, la mondanità “si esplica in un
funzionalismo manageriale ... dove il principale beneficiario non è il Popolo
di Dio ma piuttosto la Chiesa come organizzazione” (95). “E’ una tremenda
corruzione con apparenza di
bene ... Dio ci liberi da una Chiesa
mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!” (97).
Più spazio nella Chiesa a laici,
donne e giovani
Altra denuncia: “all’interno del
Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre!” per “invidie e
gelosie”. “Alcuni ... più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca
varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o
speciale” (98). Il Papa sottolinea quindi la necessità di far crescere “la
coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa”. Talora, “un eccessivo
clericalismo” mantiene i laici “al margine delle decisioni” (102). “La Chiesa
riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società”, ma “c’è ancora
bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella
Chiesa”. Occorre garantire la presenza delle donne“nei diversi luoghi dove
vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali”
(103). “Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne ...non si possono
superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di
Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone
in discussione, ma può diventare motivo di
particolare conflitto se si
identifica troppo la potestà sacramentale con il potere”. “Nella Chiesa le funzioni
«non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri». Di fatto, una donna,
Maria, è più importante dei vescovi” (104). Poi, il Papa rileva che i giovani
devono avere “un maggiore protagonismo” (106). Riguardo alla scarsità di
vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata che si riscontra in molti
luoghi, afferma che “spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore
apostolico contagioso”. Nello stesso tempo, “non si possono riempire i seminari
sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno
se queste sono legate ad insicurezza
affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico”
(107).
La Chiesa ha un volto pluriforme
Affrontando il tema
dell’inculturazione, il Papa ricorda che “il cristianesimo non dispone di un unico
modello culturale” e che “la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità”
mostrando la bellezza di un “volto pluriforme”. (116) “Non farebbe giustizia
alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e
monocorde” (117). Il testo ribadisce “la forza evangelizzatrice della pietà
popolare” (122). “Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza
missionaria!” (124). Il Papa incoraggia “il carisma dei teologi e il loro
sforzo nell’investigazione teologica” ma li invita ad avere “a cuore la
finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia” e a non accontentarsi
“di una teologia da tavolino” (133).
Omelia: saper dire parole che fanno
ardere i cuori
A questo punto, il Papa si sofferma
“con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti
sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo
chiudere le orecchie” (135). Innanzitutto, “chi predica deve riconoscere il
cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio”
(137). “L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento”, “deve
essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione” (138). Bisogna
saper dire "parole che fanno ardere i cuori", rifuggendo da una
"predicazione puramente moralista e indottrinante" (142). “La
preparazione della predicazione è un compito così importante che conviene
dedicarle un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione”, rinunciando
anche “ad altri impegni, pur importanti”. “Un predicatore che n
on si prepara non è ‘spirituale’, è
disonesto ed irresponsabile verso i doni che ha ricevuto” (145). “Una buona
omelia ... deve contenere ‘un’idea, un sentimento, un’immagine’” (157). “Altra
caratteristica è il linguaggio positivo. Non dice tanto quello che non si deve
fare ma piuttosto propone quello che possiamo fare meglio”. “Una predicazione
positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia
prigionieri della negatività” (159).
Ruolo fondamentale del “kerygma”
“Nella catechesi ha un ruolo
fondamentale il primo annuncio o ‘kerygma’”. Sulla bocca del catechista risuoni
sempre il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per
salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per
rafforzarti, per liberarti”(164). Ci sono “alcune disposizioni che aiutano ad
accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza,
accoglienza cordiale che non condanna” (165). Il Papa indica l’arte dell’accompagnamento,
“perché tutti imparino sempre a togliersi
i sandali davanti alla terra sacra dell’altro”
che bisogna vedere “con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che
nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana”
(169).
Una Chiesa povera per i poveri
Ricorda, quindi, “l’intima
connessione tra evangelizzazione e promozione umana” (178). Ribadisce il
diritto dei Pastori “di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita
delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed
esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare
che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per
preparare le anime per il cielo” (182). “Nessuno può esigere da noi che
releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna
influenza nella vita sociale e nazionale”. “Una fede autentica – che non è mai
comoda e individualista – implica sempre
un profondo desiderio di cambiare il mondo”. E cita Giovanni Paolo II laddove
dice che la Chiesa “non può né deve rimanere al margine della lotta per la
giustizia” (183). “Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere
strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri” (187). “A volte
si tratta di ascoltare il grido ... dei popoli più poveri della terra, perché
‘la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell'uomo, ma anche su
quello dei diritti dei popoli’. Deplorevolmente persino i diritti umani possono
essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali
o dei diritti dei popoli più ricchi” (190). Il Papa denuncia la “cattiva
distribuzione dei beni e del reddito” (191). Quindi lancia un monito: “Non
preoccupiamoci unicamente di cadere in errori dottrinali, ma anche di essere
fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché ‘ai difensori dell'ortodossia»
si rivolge a volte il rimprovero di passività, d'indulgenza o di colpevoli
complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi
politici che le mantengono’” (194). In questo contesto “c'è un segno che non
deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e
getta via” (195). “Per la Chiesa l'opzione per i poveri è una categoria
teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica”
. “Per questo chiedo una Chiesa
povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci” (198). Il Papa poi afferma
che “la peggior discriminazione che soffrono i poveri è la mancanza di
attenzione spirituale” (200). “Finché non si risolveranno radicalmente i problemi
dei poveri ... non si risolveranno i problemi del mondo
e in definitiva nessun problema”
(202).
I politici abbiano cura dei deboli
“La politica, tanto denigrata, è una
vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene
comune” – scrive il Papa - “Prego il
Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il
popolo, la vita dei poveri!” (205). Invita ad avere cura dei più deboli: “i
senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani
sempre più soli e abbandonati”. Riguardo ai migranti esorta “i Paesi ad una
generosa apertura, che, al posto di temere la distruzione dell'identità locale,
sia capace di creare nuove sintesi culturali” (210). Il Papa parla “di coloro
che sono oggetto delle diverse forme di tratta delle persone” e delle nuove
forme di schiavismo: “Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e
aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità
comoda e muta” (211). “Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni
di esclusione, maltrattamento e violenza” (212).
Riconoscere dignità umana dei
nascituri: aborto non è progressista
“Tra questi deboli di cui la Chiesa
vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che
sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la
dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la
vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo” (213). “Non
ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione.
Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a
presunte riforme o a ‘modernizzazioni’. Non è progressista pretendere di
risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo
fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni
molto dure, dove l'aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro
profonde angustie” (214). Poi, l’appello a rispettare tutto il creato: “Piccoli,
però forti nell’amore di Dio, come San Francesco d’Assisi, tutti i cristiani
siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui
viviamo” (216).
Voce profetica per la pace
Riguardo al tema della pace, il Papa
afferma che è “necessaria una voce profetica” quando si vuole attuare una falsa
riconciliazione che “metta a tacere” i poveri, mentre alcuni “non vogliono rinunciare
ai loro privilegi” (218). Per la costruzione di una società “in pace, giustizia
e fraternità” indica quattro principi (221): “il tempo è superiore allo spazio”
(222) significa “lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati
immediati” (223). “L’unità prevale sul conflitto” (226) vuol dire operare
perché gli opposti raggiungano “una pluriforme unità che genera nuova vita” (228).
“La realtà è più importante dell’idea” (231) significa evitare che la politica
e la fede siano ridotte alla retorica (232). “Il tutto è superiore alla parte”
significa mettere insieme globalizzazione e localizzazione (234).
Una Chiesa che dialoga
“L’evangelizzazione – prosegue il
Papa – implica anche un cammino di dialogo” che apre la Chiesa a collaborare
con tutte le realtà politiche, sociali, religiose e culturali (238). L’ecumenismo
è “una via imprescindibile dell’evangelizzazione”. Importante l’arricchimento
reciproco: “quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri!”, per esempio
“nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di
imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro
esperienza della sinodalità” (246); “il dialogo e l’amicizia con i figli
d’Israele sono parte della vita dei discepoli di Gesù” (248); “il dialogo
interreligioso”, che va condotto “con un’identità chiara e gioiosa”, è “una
condizione necessaria per la pace nel mondo” e non oscura l’evangelizzazione (250-251);
“in quest’epoca acquista notevole importanza la relazione con i credenti
dell’Islam (252): il Papa implora “umilmente” affinché i Paesi di tradizione
islamica assicurino la libertà religiosa ai cristiani, anche “tenendo conto
della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali!”. “Di
fronte ad episodi di fondamentalismo violento” invita a “evitare odiose generalizzazioni,
perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni
violenza” (253). E contro il tentativo di privatizzare le religioni in alcuni
contesti, afferma che “il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non
credenti non deve imporsi in modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni
di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose”
(255). Ribadisce quindi l’importanza del dialogo e dell’alleanza tra credenti e
non credenti (257).
Evangelizzatori con Spirito
L’ultimo capitolo è dedicato agli
“evangelizzatori con Spirito”, che sono quanti “si aprono senza paura
all’azione dello Spirito Santo” che “infonde la forza per annunciare la novità
del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempoe luogo, anche
controcorrente” (259). Si tratta di “evangelizzatori che pregano e lavorano”
(262), nella consapevolezza che “la missione è una passione per Gesù ma, al
tempo stesso, è una passione per il suo popolo” (268): “Gesù vuole che tocchiamo
la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri” (270). “Nel
nostro rapporto col mondo – precisa – siamo invitati a dare ragione della
nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano” (271).
“Può essere missionario – aggiunge – solo chi si sente bene nel cercare il bene
del prossimo, chi desidera la felicità degli altri” (272): “se riesco ad aiutare
una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il
dono della mia vita” (274). Il Papa invita a non scoraggiarsi di fronte ai
fallimenti o agli scarsi risultati perché la “fecondità molte volte è
invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata”; dobbiamo sapere “soltanto
che il dono di noi stessi è necessario” (279). L’Esortazione si conclude con u
na preghiera a Maria “Madre
dell’Evangelizzazione”. “Vi è uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice
della Chiesa. Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella
forza rivoluzionaria della
tenerezza e dell’affetto” (288)
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