martedì 9 giugno 2009

Don Gaspare Margottini

Ho trovato, tramite il mio amico Don Luciano Meddi, questa pagina, dedicata a don Gaspare Margottini, mio Padre Spirituale, missionario in Perù che vorrei condividere.

Margottini don Gaspare

Opera in Perú presso la Diocesi Huancayo, nella parrocchia di San Francisco de Assis de Ocopilla
E' sacerdote fidei donum di Roma,
nato a Cretone (RM), il 1 dicembre 1943

ordinato Presbitero il 16 marzo 1969
in Pontificio Seminario Romano Maggiore - ROMA
per la Diocesi di ROMA, fidei donum
Clero diocesano di Roma, opera nell’Arcidiocesi di Huancayo (Perù)

Incarichi attuali:

Parroco San Francisco de Assis di Ocopilla - Huancayo (Perù)

Incarichi precedenti:

Vicario Parrocchiale San Gelasio I Papa
Direttore Spirituale Pontificio Seminario Romano Minore
Assistente Pontificio Seminario Romano Minore





2008 - Celebrazione della comunione solenne e della confermazione [foto]

2008 - In Perú cresce il sostegno di Roma [segue]

2005 - Una iniezione di fiducia [leggi]

Riflessioni sulla esperienza [segue]


gli auguri dalla parrocchia di S. Francisco Ocopilla

parlando davanti alla chiesa


Formazione
catechisti

Un gruppo di catechisti della Confermazione passa la domenica pomeriggio in un momento di formazione
[foto]

Attività
parrocchia

si descrivono le attività stabili che si svolgono nella parrocchia [slides]

Ocopilla (Huancayo)
un tutto tondo del Barrio
dove sta la parrocchia
di don Gaspare [
video]

Huaycan e Hancayo

Galleria fotografica che documenta i progetti sostenuti
[
video]

La casa dei giovani

va a terminare la costruzione e arredo della struttura dedicata ai ragazzi, adolescenti e giovani del territorio di Ocopilla e del nuova Barrio
S. Cristobal. Già ospita ogni giorno ca. 250-300 ragazzi . Sono aiutati da insegnati qualificati nello studio e possono mangiare un pasto in comune [foto]

Riflessioni sulla esperienza

Vi parlerò di alcune riflessioni che vado facendo in questi anni, da quando nel 1985 sono “atterrato” in Perù. Mi colpì una cosa importante. Al di là del fatto che non sapevo dove ero “atterrato” e che quindi mi trovavo in una realtà che dovevo scoprire e analizzare, la prima cosa fu questa: di trovarmi di fronte, al livello di apparenza, fenomenologico, ad una miseria grande. Ero a Villa El Salvador, alla periferia sud di Lima, una città di 8 milioni di abitanti. Uscendo dal centro di Lima, dalla Lima coloniale, e andando verso sud, si incontrava questo grande mare di piccole baracche, molte volte senza acqua, senza luce, senza fogne. La gente viveva in questa situazione.
L’esigenza di leggere questa realtà mi venne da alcuni fatti concreti: prima di tutto che queste persone, nonostante fossero povere, alla fame, alla sopravvivenza, avevano degli elementi di unità. Per esempio, partendo dalla vita quotidiana, le mense comuni erano un elemento di unione. Iniziai, così, dall’analisi di questa realtà e mi accorsi che c’era un’organizzazione. La mensa popolare funzionava attraverso un’organizzazione capillare, in cui soprattutto le donne riuscivano ad “amministrare” la fame della gente, delle proprie famiglie, delle famiglie dei vicini. Ma dietro questa c’era un’altra organizzazione ancora più profonda, in cui il popolo, attraverso assemblee locali e a poco a poco a livello di tutta Villa El Salvador, poteva esercitare una libertà di partecipazione, ma soprattutto una partecipazione politica. Quindi c’era una formazione politica, una visione della realtà. Non parlerei proprio di coscienza, però certamente si sapeva bene dove poteva arrivare la mancanza di acqua, di fogne, di viveri, dei beni essenziali e primari e da dove proveniva. Era il periodo della guerriglia di Sendero Luminoso, e anche l’Isquierda Unida era molto forte a livello politico (nell’85, anno in cui venne eletto Alan Garcia, ebbe il 30% dei voti). Questo mi aiutò a fare una lettura dell’organizzazione popolare.

Oltre la miseria, il popolo era organizzato
Il primo impatto, infatti, è la povertà. Sia sulle Ande, dove sono da 7 anni, che nella periferia di Lima, la povertà in termini economici significa vivere con un dollaro al giorno. Una famiglia media di 6-8 persone, in cui lavorano entrambi i genitori, vive con due dollari al giorno, cioè in una situazione in cui non si possono soddisfare le necessità fondamentali. Poi consideriamo i prezzi: un chilo di pesche costa un dollaro, una papaia costa tra un quarto di dollaro e mezzo dollaro, il riso migliore è a un dollaro al chilo, un chilo di spaghetti a più di un dollaro, le lenticchie costano quasi un dollaro al chilo, e così i fagioli, che potrebbero essere un alimento di base per la popolazione. Solo le carote e le patate sono molto economiche e possono averle tutti, anche i più poveri.
Dall’impatto con questa realtà e dall’incontro con le organizzazioni che aiutavano ad affrontare la fame, nasceva quindi una riflessione sull’organizzazione popolare: il popolo era organizzato. Adesso, dopo dieci anni di repressione durissima, purtroppo molto di questo si è perso.

La sua visione del mondo è la reciprocità
La seconda tappa fu per me l’analisi politica, la presenza di Isquierda Unida e soprattutto di Sendero Luminoso – prima nelle campagne e poi, dall’88 al ’92, anche a Lima e nelle sue periferie. Io ero a sud, in uno dei punti dove la partecipazione popolare era più radicata insieme alla zona est della Carretera Central. Che significava questo? Nel Perù, sin dal 1532 ogni dieci anni sono sorti movimenti politici, o morali, o religiosi, o armati, al livello popolare; c’è stata la reazione alla conquista della colonia e, poi, alla colonizzazione nel senso di creazione di povertà. Quindi direi che l’azione politica ha agito sempre su un popolo molto affamato, non istruito, ma molto intelligente, molto sensibile, che sapeva distinguere “la destra dalla sinistra”. Nella loro cultura, per tradizione orale, tramandavano che i loro antenati erano vissuti bene, con un’organizzazione economica, agricola soprattutto, in un territorio dove fondamentalmente non c’era la fame, non c’erano epidemie. Avevano, quindi, una capacità di lettura di ciò che significa oppressione, sfruttamento, di ciò che significa portarsi via tutto.
Per esempio, il principio della reciprocità era un elemento importante, non solo nelle Ande ma in tutto il sistema preincaico e poi incaico. Il popolo, la comunità era amministrata dal curaca. Nell’impero incaico il curaca dipendeva poi dall’inca, ma con una “freccia discendente”: l’inca doveva pensare a sua volta al curaca e alla comunità. Il pane, il mais, come tutti i beni conservati nei magazzini, erano destinati a tutti, quindi l’inca non ne era il padrone assoluto. Era considerato come Dio del Sole, come il Signore, ma se da una parte gli era dato tanto, dall’altra doveva ridare agli altri, non la stessa quantità, ma pur sempre secondo un principio di reciprocità. Si intende che con la conquista della colonia questo era scomparso perché gli europei “portavano via tutto”. Quindi la gente con il passare dei secoli – e ancora adesso lo sente molto – ha assimilato chiaramente che significa povertà e che significa sfruttamento. E direi anche che le grandi rivoluzioni in Perù non sono state solo armate, ma sono state culturali, grandi movimenti culturali. Basta pensare alla rivolta di Santos Ataualpa dal 1540 al 1552, in cui è stata usata anche la lotta armata, ma ha pesato soprattutto al livello di analisi della realtà, dove si vedeva bene che la dipendenza economica era una dipendenza di sfruttamento e di impoverimento.
Quindi, per ritornare ai nostri giorni, negli anni ’80 questa analisi mi ha aiutato a vedere e a capire come molte volte il popolo per fame si deve abbassare anche a chiedere un pugno di riso, alla Caritas o alle altre organizzazioni sociali, però è sempre cosciente che quel pugno di riso gli appartiene, è suo. E faccio solo un piccolo esempio: quando le persone del popolo esigono questo, noi e le altre organizzazioni presenti diciamo subito che sono mal criados, che sono maleducate; poiché il popolo è sottomesso noi crediamo che non abbia coscienza. Invece no, il popolo sa che quel pugno di riso che gli viene regalato dalle organizzazioni nazionali, internazionali, dai vari progetti, dalle varie realtà, gli è dovuto. E gli è dovuto perché si lavora almeno 12 ore al giorno, essendo pagati con 2, 3, 4 dollari al giorno se va bene. Quindi le persone del popolo sanno che producono tanto e che gli viene dato pochissimo, appena per sopravvivere, per rimanere ad un certo livello. Questa analisi mi aiutò, così, ad aprirmi ad una lettura politica della realtà.

Il Perù è un gigante seduto su una miniera d’oro
Come terzo passo, il fattore economico mi aiutò molto a leggere la realtà, che è la realtà del debito estero, di un paese pieno di ricchezze (rame, zinco, oro, argento, legno della selva amazzonica, acqua) dove non rimane nulla. Quindi, un’analisi economica che apre gli occhi e fa vedere che questa realtà è veramente tragica e molte volte con pochissime vie d’uscita.
A proposito della questione delle terre, nel 1970 Velasco tentò la riforma agraria. Velasco era un generale dell’esercito che fece il colpo di stato nel 1968. Qui si disse che era un colpo di stato di sinistra, ma riscoprendo la storia si sa che si trattava di un gruppo di ufficiali molto “cristiani” che sapevano bene che in Perù, di fronte alla situazione critica della miseria e della povertà, se non si fossero realizzate le riforme sociali sarebbe arrivato il comunismo. Ricordiamo che in Perù nel 1965 c’erano state le guerriglie guevariste, che vennero distrutte in 6 mesi, e che a Cuba c’era stata la rivoluzione del ’59, e il movimento cresceva in tutta l’America Latina. Velasco capì che la prima cosa da fare era la riforma agraria: il Perù era in pochissime mani, come oggi, ma allora c’erano proprietari di aziende agricole che erano grandi come intere regioni, che possedevano terre, pecore, lama, vigogne, compresi gli indios. A Villa El Salvador ho conosciuto alcune donne anziane che avevano vissuto in queste aziende, trattate come animali. Mi raccontavano che il capataz portava prima il fieno alle vacche e poi il piatto di minestra alle famiglie degli indios.
Oggi l’analisi economica ci dice che il 60% dei peruviani sono poveri (per essere esatti, le cifre ufficiali dicono il 55%, ma arrotondo perché so che la realtà è molto più grave di ciò che si dice). Di questo 60%, il 20% vive in estrema povertà, cioè in miseria. Quindi nella realtà di oggi mi sembra che avremmo dei compiti abbastanza grossi da assolvere.

Ricostruire l’organizzazione popolare, in tutto
Dopo dieci anni di repressione durissima, dovremmo cercare di ricostruire, di ritessere il tessuto sociale. Purtroppo la realtà della fame porta al principio del “si salvi chi può” (in Perù si dice bailar con su proprio panuelo). Ritessere il tessuto sociale è importantissimo. Si tratta anzitutto dei sindacati che sono ad un livello bassissimo, distrutti dalla repressione in molti modi. In secondo luogo bisogna ricostruire l’organizzazione popolare, che un tempo era una forza molto grande a livello di dialogo con le autorità politiche. Terzo, poco a poco dobbiamo ricostruire un progetto politico, non “fare per il fare”. Ad esempio, come prete, porto avanti dei piccoli progetti, ma nella maggior parte del tempo che sono stato lì non ho fatto progetti di alcun tipo, non perché non voglia aiutare la gente, ma è che sono profondamente convinto che non è quel pugno di riso a salvare il popolo o l’America Latina, ma è la coscienza. Il popolo questa coscienza ce l’ha: se lo vogliamo aiutare dobbiamo fortificarla con una presenza che vada molto al di là degli aiuti immediati. Organizzo anche delle borse di studio, per far studiare i ragazzi, per prepararli all’Università, agli Istituti, ecc. Ma non è questa la cosa più importante. Faccio la catechesi, la pastorale perché sono prete, ma tutto deve servire a fortificare questa coscienza. Perché se non aiutiamo e non appoggiamo questo processo, è veramente difficile pensare o realizzare dei progetti a breve, media o lunga scadenza.






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